“Lei ha figli?”. Colloqui di lavoro per portatrici di utero.

“Lei ha figli?”

Mi sono sempre incazzata davanti ai racconti di donne che, durante i colloqui di lavoro, si sono sentite rivolgere questa domanda illegale.
Mi chiedevo come fosse possibile invadere così tanto la sfera personale dell’altr
ə.
Ma soprattutto, perché?
Cosa c’entra la professionalità di una donna con il suo avere/non avere, desiderare/non desiderare figli
ə?

Oggi mi sono trovata nella condizione della parte lesa, di chi quella domanda se l’è sentita fare.
Ancora non ci credo. Sono talmente tanto incredula che a momenti alterni mi dico che non è possibile, che ho sentito male, che sicuramente mi è stato detto altro.
E invece no, col cavolo, quella domanda me l’hanno fatta davvero. Mi hanno guardata e mi hanno chiesto:

“Lei ha figli?”
Nel preciso istante in cui ho recepito il suono di quella frase, sono stata invasa da mille emozioni, ma su tutte ha regnato sovrana l’umiliazione di dover chinare il capo e dare una risposta.
Non la risposta che la mia pancia mi urlava, cioè “Questa domanda è illegale”, ma quella che la mia testa mi ha aiutato a partorire, consapevole del fatto che non avrei potuto fare altrimenti.

“Un lavoro da mal di pancia”

Ho dato la risposta che volevano sentire e, per il resto del colloquio, sono riuscita a pensare soltanto “Spero che non mi assumano”.
Si, perché davanti all’unica offerta di lavoro, se non hai alternative, non puoi dire di no.

Oggi ho imparato a mie spese che, se sei una donna nel 2021, puoi trovarti ancora nella condizione in cui devi morderti la lingua, abbassare la testa, dare le risposte che vogliono sentire e pregare di ottenere un lavoro che inizierai con il mal di pancia, sentendo di aver tradito persino te stessa.
E’ così che ci si sente dopo quella domanda: piccole, traditrici dei propri ideali, impotenti, senza alternative.

Alla fine del colloquio ho sentito la rabbia appropriarsi anche della più piccola particella del mio corpo.
Ero talmente tanto arrabbiata da voler piangere e gridare dalla finestra che non ne posso più di questo mondo maschilista e sessista, che il mio avere un utero non può e non deve annientare la mia figura professionale, che il mio essere donna e avere un compagno non si traduce necessariamente nel bisogno di avere un figlio e, anche se fosse, questo non avrebbe nulla a che vedere con il piano lavorativo.

E poi, chi ha detto che i pannolini debba cambiarli io?!

Ho delle competenze, non solo un utero

Mio marito fa colloqui da più di dieci anni e MAI nella storia della sua carriera, gli è stato chiesto se ha dei figli e se ha intenzione di averne.
Nel suo caso, e in quello di qualsiasi altro uomo esistente sulla faccia della terra, ciò che conta (giustamente) sono le competenze, l’esperienza, la capacità di saper fare bene il proprio lavoro.

E allora perché per noi donne deve essere diverso? Perché avere un utero dà un colpo di spugna a tutto quello che riguarda la professionalità?
Anziché spaventarsi per la presenza di un utero, forse sarebbe stato utile soffermarsi sulla mia storia, sulla mia capacità di raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissata a prescindere dall’età, dai tempi e dalle modalità che la società impone.

Ho due lauree, prese a sangue e sacrificio e, non me ne voglia mio marito, ho dovuto faticare il doppio per guadagnarmele.
Sono una persona che si è posta l’obiettivo di studiare e crescere professionalmente, senza privarsi della possibilità di avere una famiglia.
Sono tenace, capace di inciampare e cadere novanta volte per poi rialzarmi altre cento, con centouno motivi per farlo. Sono una persona che non si arrende, che supera gli ostacoli, che sa quello che vuole e dove intende arrivare.
Ma, soprattutto, sono una donna
che vuole fare bene il suo lavoro.

Non sono mai stata autocelebrativa, non fa parte di me, eppure per oggi credo sia giusto farlo per ribadire un semplice concetto:

Sono una persona con una gran bella storia.
Non sono il mio utero.

Le Fanfarlo

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Le Fanfarlo è una scuola di burlesque, un gruppo di performer, un blog corale di donne che vivono il burlesque non come fine ma come strumento di empowerment femminile

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Abbiamo un cervello e un reggicalze. E non abbiamo paura di usarli. Entrambi.

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